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Messaggio  Admin Lun Ago 10, 2009 10:02 am

C’è un passaggio nell’articolo di Paola Baiocchi e Andrea di Stefano,
pubblicato sul numero 23 di Carta [26 giugno 2009], che mi pare di
fondamentale importanza. Volendo parafrasare «Lettera a una
professoressa»,
andrebbe scolpito sulla porta di ogni gruppo d’acquisto e di ogni gruppo
che
aderisce a Bilanci di Giustizia. La frase è: «Per modificare a fondo
l’economia in senso egualitario, non basta parlare di stili di vita,
bisogna parlare di modelli di società».
Può sembrare strana questa mia posizione, ma dopo avere insistito per anni
sul consumo critico e sugli stili di vita come nuovi spazi di impegno,
sento
che questa proposta può trasformarsi in un’involuzione se viene vissuta
come
il nostro unico spazio di impegno. Ho sempre concepito le azioni attraverso
il consumo come un’ulteriore leva di impegno politico in aggiunta alle
altre
che tradizionalmente abbiamo sempre vissuto (voto, sindacato, protesta,
rivendicazione, partecipazione locale, progettazione dell’alternativa),
perché solo utilizzando tutti gli spazi di potere che abbiamo a nostra
disposizione possiamo sperare di promuovere il cambiamento.

Invece ho l’amara sensazione che molti stiano vivendo le iniziative
attraverso il consumo come una sostituzione degli altri livelli di impegno,
una sorta di riflusso nel privato politico: avendo capito che il sistema è
duro a cambiare, ci rifugiamo nelle piccole iniziative individuali e di
gruppo, che almeno ci danno la sensazione di avere raggiunto qualcosa di
concreto. Aspirazione legittima, ma che va vista per quello che è: una
tentazione per trovare l’illusione della pace interiore.
Coerenza personale, esperienze alternative, partecipazione istituzionale in
ambito locale,
rivendicazione e opposizione in ambito nazionale e internazionale, ma anche
pensiero in grande: questi sono, a mio avviso, gli spazi che dobbiamo
occupare contemporaneamente se vogliamo giocare un ruolo di cambiamento
reale. Fra tutti, quello che sento abbandonato di più è l’ultimo, il
pensiero in grande, la capacità di delineare un orizzonte alternativo, una
nuova terra promessa verso la quale incamminarci. Navighiamo a vista, come
tutti gli altri protagonisti della scena politica, senza un progetto se non
parole; decrescita, sostenibilità, «buen vivir». Parole belle, che
esprimono
valori importanti, ma che non si trasformano in azione politica perché non
delineano un quadro alternativo di riferimento, non esprimono il famoso
modello sociale di cui parlano Paola e Andrea.
Prendiamo atto della realtà: siamo pochi, sempre gli stessi, se andiamo
avanti di questo passo ci spegneremo per consunzione. Mi chiedo perché, e
una parte della risposta sta nella violenza del sistema, che ci impone una
precarietà crescente, forme di assunzione che dividono, invasione
televisiva, concentrazione mediatica, impoverimento scolastico. Tutto
questo
sta modifi cando il nostro essere, sta scalzando il senso dei diritti,
della
solidarietà collettiva, dell’equità, del rispetto, per fare posto ai
concetti mercantili di tipo individualista: arrivismo, successo, ricchezza.
Ma mi dico che parte della responsabilità è anche nostra: di fronte ai
gravi
problemi sociali e
ambientali che stiamo vivendo, partoriamo solo piccole iniziative
individuali e di gruppo, non
siamo assolutamente capaci di indicare una strada di trasformazione di
massa. Questo è il terreno che dobbiamo recuperare. Mentre continuiamo a
fare tutto il resto che già facciamo, dobbiamo trovare il tempo e le
energie
per occuparci anche della progettazione dell’alternativa, altrimenti non
diventeremo mai credibili. La gente vuole sapere come potrà vivere pur
smantellando l’industria dell’automobile, come potrà avere una buona
sanità,
una buona istruzione, in una parola una buona economia pubblica, pur
raffreddando l’economia, come si coniuga una buona vita con risorse
limitate. Dobbiamo tornare a riflettere, a progettare l’alternativa, e
dobbiamo farlo in una maniera partecipata, guai alle soluzioni di vertice.
Sogno la nascita di cento, mille, un milione di piccoli gruppi diffusi in
ogni dove, che si confrontano su questi interrogativi e al tempo stesso
prospettano degli scenari di lungo respiro e delle strategie di intervento
immediato. Un lavoro di pensiero e di progettazione diff uso ma non
svincolato, effettuato in un rapporto di rete che nel tempo possa sfociare
in un qualcosa di più organizzato: un movimento dalle mille specificità
che
però è unito da un pensiero comune sulla forma sociale ed economica che
può
assumere la nostra società industriale, un movimento che, pur proponendo e
vivendo strategie politiche e partecipative le più varie, forma massa
critica nella medesima direzione e sa coagulare attorno a sé nuove forze.
Ci vuole una regia per tutto questo. Vedrei bene che fosse assunta in
maniera congiunta dalle riviste dei nostri movimenti, perché hanno il
vantaggio di arrivare a molti. Chiedo formalmente ai direttori di Carta,
Altreconomia, Valori, di rispondere a questo appello e di dichiararsi
disponibili a un incontro di approfondimento. Attendo fiducioso una
risposta.

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